Veterinari. Parlando con un’amica veterinaria, e ipotizzando un problematico parallelismo con la sua professione e quella medica, le chiedevo se il paziente è da considerarsi l’animale o piuttosto il padrone del medesimo. Ora, la risposta è immediata e intuitiva: l’animale. Perfetto. Tutto risolto? No. Anzi, le riflessioni si moltiplicano. Innanzitutto, la professione veterinaria assume come fondamento l’interlocuzione con il padrone dell’animale. Dunque, ammettendo la proprietà privata dell’animale è intimamente contraria al vetero (appunto) marxismo. Del resto, non solo avvocati, medici, docenti universitari, sono esponenti della società borghese (i professionisti, appunto). Ma che succede se "l’animale che mi porto dentro vuole me"? Ad esempio, succede questo. Famigliola. Padre ignaro, madre apprensiva, sorella infante, primogenito inquieto. Cane agonizzante. Che ha? Chiede il veterinario. Non so, risponde l’ignaro… Non sta bene! La prego, ci aiuti! Interviene l’apprensiva. Gu-gu-ghe-gé. Aggiunge l’infante (unico intervento sostanziale). Si fanno le lastre. Lo stomaco dell’animale è a macchie rotonde e regolari. Fa niente, la lastra ha preso luce. Si ripete. Ancora macchie. Ma che ha, il cane? Forse… Forse sono io che gli ho dato qualche moneta… Ammette l’inquieto virgulto. Beh, forse il problema non è eliminare la proprietà privata. Non è piuttosto che i salvadanai sono caduti in disuso?

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