Salvia. Nella cucina contemporanea si è oramai affermata la deriva abilitante (di rado) o castrante (sovente) delle tradizionali capacità culinarie di una Nazione. Le spezie e gli aromi. Un riso in bianco? Spolverata di curry. E muovendo dalle proprie origini ospedaliere, il piatto comincia a tradire un fascino esotico, suggestioni indocinesi e note di sitar. Boh, sarà l’effetto Cannamela, ma un banale pesce bollito diviene cosmopolita con la semplice aggiunta di wasabi. Proprio quella specie di pongo verde che sa di detersivo. Ma i giapponesi lo mettono sul sashimi o sui maki di tonno. C’è sempre un cialtrone che lo ricorda a sproposito, corredando la preziosa informazione con aria blasé, artificiosamente distratta. Allora mi chiedo: sono proprio le gustose essenze della terra a trasformare gli alimenti in parvenu? E in questa scalata di vacua formalità, che ruolo ha la salvia, reietta fra le spezie, con la sua rassicurante fragranza di pipì?

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