Primedonne. L’originario spiazzamento di chi non è né maschilista né femminista, ma vuole semplicemente studiare e documentarsi sul rapporto fra i generi, si espande a dismisura nei contesti in cui un sesso narra di sé. Ma quando un sesso narra dell’altro, la cautela dovrebbe essere d’obbligo, dal momento che la consapevolezza assoluta di cosa significhi essere donna per un uomo o essere uomo per una donna non ci sarà mai, almeno nell’opinione del sottoscritto. Poi accade l’(in)immaginabile. Assistendo a una recente rappresentazione de I monologhi della vagina in inglese, mi divertivo nel trovarmi in una situazione privilegiata per un maschietto: ascoltare donne che liberamente parlano della propria condizione intima e dei riverberi che quest’ultima produce nel rapporto con gli uomini. Qualche eccesso di colore, d’accordo, mai comunque come i discorsi che si fanno tra maschi al bar o negli spogliatoi. La forza dei monologhi sta in questo. Se sei donna ti compiaci della normalità di alcuni dubbi e di sensazioni che si fanno spazio tra altre donne. Un cameratismo in rosa, direi. Se sei uomo, non sei costretto a sbirciare dal buco della serratura, portandoti a casa i tuoi luoghi comuni. Ti viene aperta la porta principale, quella dei sogni, dei turbamenti e delle emozioni. E come è giusto che sia, puoi ridere ed indignarti. Ma per entrare è giusto chiedere permesso, e lo si chiede lasciando fuori i pregiudizi, come si lasciano fuori le scarpe prima di entrare in casa di un giapponese. In un equilibrio così delicato, può succedere che qualcuno esageri. E ad esagerare è una delle performer (tra l’altro, l’unica che ha la pronuncia inglese degna di Totò) la cui invettiva spietata sugli uomini non è comprensibilmente rivolta a consolidare lo spirito di gruppo con le altre donne. È invece uno strumento per distinguersi, per provocare, per creare un palco sul palco dove lei – e soltanto lei – è la vagina parlante. Questo mi suggerisce un problema intrinseco all’evoluzione del moderno femminismo. Il problema non sta tanto nel rivendicare l’origine della specie. Quello è un problema di cicli, di corsi e ricorsi. La donna crea l’uomo in natura, mentre da una costola dell’uomo sorge la donna, secondo la cultura biblica. La modernità ha esaltato il ruolo dell’uomo, la post-modernità chiede il conto e idealizza l’autonomia femminile condannando il romanticismo. E allora? Il problema sta piuttosto nel fatto che tanto le donne quanto gli uomini hanno il potere di trasformarsi in primedonne, sovrastando gli altri e annullando il senso dello sforzo comune per dire qualcosa di nuovo. Ora, siccome la donna è un essere umano quanto l’uomo, non è quindi immune dal vizio, ivi compreso l’eccesso di vanità. Ma poi, perché vantarsi, se non per piacere a un uomo?

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