Lucano. Avevo un pro-zio (Pino, ma che in quanto pro-zio chiameremo pro-Pino) che gestiva un bar. In un bar di paese, nella Romagna degli anni Sessanta, un immigrato lucano era esotico come un dissidente palestinese, un monaco birmano, un esule cileno. Il suo linguaggio manteneva l’accento di provenienza, ma era un riflesso identitario e – se non ci si capiva – spesso dietro c’era la volontà di non capirsi. Situazione. Lucano: (pro-)Pino, mi faresti un thé? (pro-)Pino: Sicuro! Passano cinque minuti. Torna (pro-)Pino, con l’ordine: Prego, è pronto il suo toast! Lucano: Ma (pro-)Pino! Ti avevo chiesto un thé! (pro-)Pino (confuso, si rianima): Dai, dai magna magna, maruchén! Non c’era offesa, solo ironia e un velo di imbarazzo che induce a rilanciare la conversazione. Il punto è: per evitare equivoci, cosa avrebbe dovuto ordinare il cliente? Come nasce, la pubblicità del famoso amaro? Non è contro il logorio della vita moderna (Cynar), che vogliamo il meglio (Lucano)?

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