Vita morte e accanimento terapeutico su un font chiamato DIN.

Nel 2002 il mestiere di grafico era molto diverso, si mandavano i file in stampa telefonando a un tipo che con uno scooter passava fisicamente da te a ‘ritirare i file’, registrati sui supporti più svariati, e li portava alla tipografia.
Internet era ancora un adolescente, sfruttato soprattutto per la posta elettronica, o per intortare remoti sconosciuti tramite ICQ.
Questo per inquadrare il momento storico.

Oh tieni questi, sono dieci mila

La mia ricerca sui font all'epoca era quasi nulla.
Tra grafici ci si scambiavano cd da 10.000 font come se fossero noccioline, e da un momento all'altro ti ritrovavi la libreria murata di font (uno più brutto dell'altro), ma eri contento.
Tutti i font erano un po’ vecchiotti, diciamo vecchie glorie anni Novanta: Rotis sans, ITC Officina Sans, ITC Avant Garde Gothic e altri 9997.

Questo è l'Avant Garde, non ti sembra familiare?

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Ricorda qualcosa?

Un giorno, non ricordo come esattamente, scoprii l'esistenza del DIN. Ebbi una sorta di visione mistica. Finalmente un font super contemporaneo, serio, nordico, leggibile, che ricordava la segnaletica delle stazioni tedesche e per questo ai miei occhi sembrava una figata assurda.

Mamma ti presento il nuovo migliore amico: si chiama DIN e viene di Germania.

DIN

Deutsches Institut für Normung: ecco spiegato l'acronimo DIN

Iniziai a utilizzarlo in ogni occasione, il pieghevole per il piccolo Comune di provincia, il poster per il partito, il biglietto d'auguri per il compleanno di mia mamma. Avevo l'impressione che il progetto di germanizzazione razionalista del mondo e provincia, imperniata sul DIN e su una griglia alla bauhaus allungata con Tavernello, fosse la mia missione.

L'Erik Spiekerman della via Emilia

Volevamo tutti essere Erik, ma siamo finiti a fare tutti la stessa minestra riscaldata (male), col DIN.
Trivia: lo sai che ora Erik si è preso bene con i caratteri mobili?

Erik

Erik, severo, ma giusto. Guarda il video.

Intanto la popolarità del DIN, sempre nei primi Duemila, cresceva a dismisura, e a me iniziava quindi già a stancare (ma quanto sono snob?).
Appoggio qui un grafico colto e a bassa risoluzione per fare sembrare che abbia studiato il ciclo dell'hype, quando il mio unico riferimento sull'argomento è questa dottrinale canzone dei Public Enemy.

Come per tutte le cose che piacciono, poi stufano. Venne allora il giorno in cui feci voto di non usarlo più, o più semplicemente smisi di pensarci. Era il 2004.

Se per un grafico «Style is the message», insistere, ripeterersi, autocitarsi nel solco dell'intuizione di un momento, insomma, come dicono alla Crusca, alla lunga scassa la minchia.
L'imperativo (mio) è andare avanti con la ricerca, trovare nuove connessioni tra lo spirito dell'opera, del committente e del grafico nel preciso momento in cui avviene. Come un pranzo da uno chef di altissimo livello (ingredienti + chef + cliente + adesso).

Togli, togli, togli

Cambiai diversi posti lavoro, cambiai città, crebbi, mi ritrovai a lavorare su altri computer con alti 10.000 font diversi, fino al 2008, quando l'allora mio datore di lavoro in Ada comunicazione, Fabio Boni, ha iniziato a farmi capire il significato e la bellezza della ricerca sui font. Da allora ogni font che uso è frutto di una ricerca, fatta ad hoc per quel progetto, per quel committente e che rispecchia la mia sensibilità in quel momento. Sempre roba fresca.

So, please stop using it

Sono dieci anni ormai, che alla vista di un DIN impazzisco e mi metto un vestito da donna, poi non corro al porto, stendo un lenzuolo bianco e inizio ad avere delle strane convulsioni.

Tarantolabili

Iniziamo?

Vogliamo parlare del tuo progetto? Siamo qui.

Lets gooooooooo